Politiche e derive dell'etnopsichiatria

"L'Homme", prestigiosa rivista francese di antropologia, pubblica sul numero 153 del Gennaio-Marzo 2000 un articolo di Didier Fassin, medico e sociologo, Les politiques de l'ethnopsychiatrie. La psyché africaine, des colonies britanniques aux banlieus françaises (pp. 231-250) che è in sostanza un duro attacco al lavoro e al pensiero di Tobie Nathan. Questo articolo fa seguito a un altro dello stesso Autore pubblicato su una più modesta rivista, "Genèses. Sciences sociales et histoire", L'ethnopsychiatrie et ses réseaux. L'influence qui grandit (1999, 35, 146-171) dello stesso tenore. Nathan non è nuovo ad attacchi anche violenti cui risponde a tono e volentieri, con la vivacità che gli è propria. Di questo mi pare valga la pena di approfittare per cercare di chiarire aspetti del pensiero e del lavoro di Tobie Nathan mai davvero esplicitati e perciò formalmente ambigui, occasioni e pretesti per equivoci e interpretazioni di ogni tipo e parte.

Fassin dichiara subito l'obiettivo del suo lavoro: "Insomma, la questione posta è quella del significato politico di un dispositivo di interpretazione e trattamento dei disturbi mentali e delle devianze sociali che costituisce l'alterità come un orizzonte teorico e pratico insormontabile." (p. 233) Per svelare il significato politico dell'impresa nathaniana, Fassin la mette in parallelo con l'expertise di J. C. Carothers in Kenia nel 1954, in occasione della rivolta dei Mau-Mau. Si tratta di un episodio poco conosciuto e vale qui la pena di riassumere la ricostruzione che ne fa Fassin.

Nel 1954 il Governo britannico nomina un commissario speciale per fornire alla autorità coloniali alle prese col movimento Mau-Mau i mezzi per comprenderne i fondamenti e gestirne le conseguenze politiche. Questo commissario fu J.C. Carothers, medico, già direttore dell'Ospedale Psichiatrico di Mathari a Nairobi, figura preminente negli anni '40 dell'etnopsichiatria coloniale, autore di una monografia pubblicata nel 1953 dall'OMS (The African Mind in Health and Disease. A Study in Ethnopsychiatry, WHO, Ginevra). Nel suo rapporto (The Psychology of Mau-Mau) Carothers, riferisce Fassin, "fa di questo movimento sociopolitico un fenomeno psicopatologico determinato sia dai tratti della personalità dei Kikuyu, strettamente connessi alla loro cultura, sia dagli sconvolgimenti psichici collettivi prodotti dall'incontro con la società europea." (p. 234) Carothers definisce i Kikuju individualisti, astuti, litigiosi, insicuri, sospettosi verso i vicini e gli esseri invisibili, predisposti al segreto e alla violenza, facilmente attirati dai rituali iniziatici, parte essenziale della loro organizzazione segreta. Frustrati dalle speranze deluse di poter diventare come i britannici, avrebbero sviluppato contro di loro risentimento e rancore. Tutto ciò spiegherebbe la loro "sleale" rivolta. La loro doppiezza criminale non sarebbe per lo psichiatra che l'espressione dei tratti di dissociazione della personalità così marcati tra gli Africani.

Politiche e derive

dell'etnopsichiatria.

Note a margine di una

polemica francese

 

di Piero Coppo

 

 

Destra, sinistra e altri balli in maschera clic

Errori e disabilitazioni clic

Il caso di Tobie Nathan e del Centro Devereux clic

Un ebreo-ebreo, forse ex-maoista clic

Politiche e derive dell'etnopsichiatria clic

Nel suo rapporto, Carothers non cita mai l'ideologia nazionalista del movimento Mau-Mau, né la rivendicazione delle terre espropriate, né le origini, la formazione, le ragioni politiche dei leader del movimento (universitari, militari, capi sindacali) ben lontani dalla "psicologia primitiva" invocata a spiegare la ribellione. Carothers propone infine misure atte alla reintegrazione sociale dei Kikuyu: si tratta di raggrupparli in unità di taglia modesta, lontano dalle città e dai loro effetti destrutturanti, dove possano ritrovare la loro vita ancestrale.

Col rapporto di Carothers, "...il dibattito è ormai portato sul terreno politico e l'etnopsichiatria diventa uno strumento ufficiale dell'amministrazione delle popolazioni colonizzate. Come nota lo storico australiano Jack McCulloch: "Con la monografia di Carothers, la scienza etnopsichiarica entra formalmente nel campo della azione politica. The Psychology of Mau-Mau dimostrò fino a che punto l'etnopsichiatria faceva il gioco dell'elaborazione e della razionalizzazione delle credenze convenzionali dei coloni sugli africani." Insomma, la nuova disciplina pretendeva fondare come teoria i pregiudizi sui popoli colonizzati e legittimare nello stesso tempo, in nome del sapere scientifico, le pratiche della colonizzazione." (p. 235)

Fassin mette in parallelo quella storia con quella del Centre Devereux e di Tobie Nathan, ben conosciute dai lettori di questa rivista, di cui sottolinea innanzitutto il successo: l'influence qui grandit. Delle seicento visite-perizie all'anno, richieste dalle varie istituzioni preposte alla tutela materno-infantile, all'aiuto sociale all'infanzia e all'adolescenza, alla giustizia, alla sanità, il 96% riguardano immigrati. Riferendosi poi in particolare al libro L'influence qui guérit, che ritiene un vero e proprio "programma di gestione dell'immigrazione", sottolinea tutti i passi in cui Nathan accenna all'importanza dell'appartenenza culturale, fino a quello, ormai celebre, in cui raccomanda alle istituzioni francesi di "favorire i ghetti per non costringere mai una famiglia a abbandonare il suo sistema culturale". Dunque, conclude Fassin, il successo crescente di T. Nathan presso le istituzioni repubblicane dimostra che la sua pretesa marginalizzazzione, la sua posizione di ribelle rispetto alla République sono fittizie e invece nascondono una sostanziale convergenza di interessi: chiudere gli immigrati nelle loro culture di origine e quindi mantenerli fuori dalla società francese, opporsi alla loro integrazione e a ogni meticciato. Proprio come Carothers aveva fatto gli interessi della colonizzazione occultando i motivi socio-politici della rivolta e coprendoli con elementi psicologici e culturali, così Nathan occulta il conflitto socio-economico che sta alla base del disagio dei migranti rivestendolo da problema culturale e psicologico. Così come Carothers proponeva come soluzione la "villagizzazione" dei Kikuyu in unità piccole, isolate, lontane dalla città e dalla modernizzazione, Nathan risponderebbe ai disagi dei migranti chiudendoli con i loro oggetti nei villaggi di origine, territorializzandoli, offrendo così il razionale psicologico alle politiche razziste e xenofobe. Proprio questa convergenza di interessi tra istituzioni repubblicane e opera nathaniana ne spiegherebbe il successo che fatti e cifre svelano, contraddicendo la protestata marginalità cui Nathan sarebbe condannato.

Per Fassin, ciò che a 50 anni di distanza avvicinerebbe Carothers a Nathan è l'utilizzare un'esperienza clinica per erigere un modello di governo: Carothers con la sua "villagizzazione", Nathan con la ghettizzazione degli immigrati, la loro obbligatoria chiusura dentro il loro mondo culturale originario. La differenza sta solo nella forma: Carothers è totalmente coeso all'amministrazione coloniale e alla sua ideologia; mentre Nathan si presenta come un contestatore dell'ordine stabilito, un marginale; ma questa "retorica" non può nascondere la sostanziale connivenza con i poteri politici, non dissimile a quella di Carothers. Il suo discorso, presentato come discorso di guerra, ha invece l'obiettivo di preservare "la pace sociale" (p. 240) Ulteriore analogia tra i due, la sostanziale ignoranza etnologica mascherata da profonda conoscenza dell'altro, che è invece conoscenza non della sua specifica realtà, ma dell'altro come stereotipo. Infine, la sovradeterminazione culturale finisce per occultare la realtà dei rapporti economico-sociali. Culturalizzazione e psicopatologizzazione, vizi connaturati secondo Fassin all'etnopsichiatria, nascondono i processi e i conflitti sociali, rendendo per questo l'etnopsichiatria connivente con l'organizzazione dell'esistente, e implicandola come complice nella gestione pratica dei conflitti sociali.

Questi e forse altri interessi e connivenze nascoste spiegherebbero la rete di collaborazioni su cui il Centre Devereux può contare, che ne fanno, per le istituzioni repubblicane, il luogo privilegiato di expertise sui problemi dei migranti. Tra detto e non detto, Fassin attribuisce a Nathan un'appartenenza di destra, razzista e xenofoba.

Non mi interessa entrare nel merito di quali considerazioni abbiano spinto Fassin, di cui conosco l'interessante e preciso lavoro sui sistemi di cura a Pikine, periferia di Dakar , a impegnarsi su un simile terreno e prendere, per scritto, simili posizioni. Mi pare invece interessante riflettere sugli impliciti politici dell'etnopsichiatria da un punto di vista più avanzato rispetto a quello, ancora prigioniero della politica spettacolare, che oppone "destra" a "sinistra" e che lega la constatazione delle specificità biologiche e culturali all'uso fattone dal dominio nel tentativo di giustificarsi (razzismo, ma anche "guerre etniche", ecc.), senza tener conto che oggi il dominio usa, con gli stessi obiettivi, l'ideologia universalista. Infine, credo sia importante, per chi lavori nei "luoghi e lingue di confine tra antropologia, psicologia, medicina e psichiatria", cogliere questa occasione per un'ulteriore riflessione sulle ripercussioni di tutto ciò nell'ambito delle relazioni tra diverse discipline e nello statuto dell'etnopsichiatria.

 

Destra, sinistra e altri balli in maschera

Per situare la questione bisogna innanzitutto domandarsi quali siano le forze oggi in campo, e quali gli schieramenti. Lo schema più semplice è quello di una globalizzazione in corso, mondializzazione o occidentalizzazione, guidata dall'egemonia culturale, economica, finanziaria e militare dell'Occidente e in particolare del suo polo nordamericano, che tende a imporre al resto del mondo (in modo da renderlo compatibile col proprio funzionamento) il suo proprio specifico modello di organizzazione produttiva e sociale. Le principali armi di questa colonizzazione sono l'economia e la politica finanziaria, cui si aggiunge, in caso di crisi, la forza militare. Le principali agenzie esecutrici sono la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione del libero commercio, per l'imposizione del modello economico e sociale; le agenzie che producono informazione e spettacoli e diffondono oggetti e idoli (merci), per l'imposizione del modello culturale; la NATO, per gli interventi armati. Quest'ultima dovrebbe agire sotto mandato ONU, ma interviene sempre più su pressioni statunitensi senza tuttavia incontrare alcuna decisa opposizione dalle Nazioni Unite, le cui agenzie (UNICEF, OMS, OIM, PNUD, ecc.) sembrano svolgere dunque, volenti o nolenti, funzione di copertura o giustificazione all'estensione dell'occidentalizzazione e alle relative operazioni militari. Anche se su questo stesso terreno gli USA sono continuamente sfidati da altri poli emergenti, e anche se la loro egemonia suscita reazioni e coalizioni avverse, fino ad oggi sono sempre risultati vincitori nelle lotte interne allo schieramento dominante, tanto che a ragione il Presidente Clinton ha potuto affermare recentemente, nel Discorso dell'Unione: non siamo mai stati così forti.

Si tratta dunque di capire quali siano gli assi portanti di questa tendenza, quali resistenze esse suscitino, quali siano le eventuali alternative in ovo, quali i movimenti, se ne esistono, di opposizione per collocare sensatamente la posizione di un singolo, un gruppo, una disciplina in un contesto "politico".

Molte centinaia di pagine sono state scritte su questo tema, ed è impossibile qui anche solo tentare una sintesi delle caratteristiche del modello egemone. Mi limiterò a dire che di volta in volta è stato chiamato capitalismo spettacolare integrato (perché sfrutta lo spettacolo in quanto strumento di dominio e perché ha sussunto il capitalismo di stato orientale e quello privato occidentale in un modello misto), dominio reale del capitale (perché l'economia governa direttamente l'intero esistente), società postmoderna¸ modello liberista o neo-liberista, ecc.

Per ciò che interessa in questo contesto sottolineo solo che si tratta di un modello di organizzazione dell'esistente che si basa su una egemonia decentralizzata, diffusa, in cui tuttavia restano visibili i centri di potere; che diffonde un tipo specifico di relazione tra umani e tra umani e ambiente; che si giustifica con un apparato ideologico che fa del progresso, della libertà e della democrazia valori portanti, senza tuttavia mai interrogarsi su cosa questi termini significhino oggi davvero nei diversi contesti; che si poggia sulla tecnica e sulla "scienza" come valori assoluti di riferimento; che fa delle merci i veri soggetti; che oppone in modo secco civiltà e barbarie, progresso e stagnazione/recessione, società tecniche e società arretrate senza aprire nessun distinguo, sfumatura o alternativa, così che o si sposa quel modello, o si cade tra i fautori del negativo assoluto e della barbarie.

Tra le forme di resistenza la più celebre e compiuta è stata quella zapatista in Messico; ma anche, recentemente, il boicottaggio della conferenza del libero commercio a Seattle; l'insurrezione contro la "dollarizzazione" in Ecuador; il lavoro quotidiano di tanti nei meandri della società civile informale, il coraggio di pochi intellettuali che hanno saputo, e potuto, prendere pubblicamente la parola nei passaggi critici recenti.

Tra le opposizioni speculari, veri e propri riflessi condizionati, il coagularsi di gruppi che si rifanno alla Tradizione, al Passato, alle Etnie e alle chiusure difensive che per tanto tempo hanno caratterizzato le società del bisogno, dello sfruttamento e del dominio.

Questo mi pare lo scenario, lo sfondo. Dove sta qui la destra e la sinistra? La predicazione progressista dei miracoli del progresso, della crescita economica, del mercato e del profitto come motori principali e indispensabili dell'attività umana, la complicità in interventi quali quello NATO in Kossovo (presentato come necessario all'installazione dei Diritti Umani, e quindi come opera di civilizzazione), sono di destra o di sinistra? I governi socialdemocratici e socialisti di Europa si sono messi all'opera di buona lena sapendo di dover essere buoni allievi, se non vogliono essere disarcionati, nel giro di qualche settimana, dalle borse e dalle valutazioni delle agenzie finanziarie del mondo. Tra conservatori e progressisti le differenze sono negli stili, nel ritmo e nel tono, nel packaging delle misure sociali imposte dall'economia: non nel senso del processo che li arruola e per cui lavorano. Non si tratta, in fondo, che di differenze morali, di coscienze felici o infelici.

La questione, se si vuole collocare una persona o una posizione nella mappa dei rapporti di forza esistenti, e quindi nella "politica", va posta altrimenti. Rispetto al modello egemone, che riassume in sé (come tante esperienze di governo mostrano) le tradizioni delle destre e delle sinistre storiche, come si colloca il lavoro, il progetto di ognuno? E anche: fino a che punto si è legati, asserviti, per la posizione che si occupa, ricattati, per il vantaggio che se ne vuole trarre, dal modello egemone?

Già il modo con cui si pone la questione può essere indicatore della posizione di chi la pone. Se si sta all'opposizione, e ci si pone questa domanda, è quasi tra sé e sé, per capire cosa è possibile mettere in comune con l'altro. Denuncie pubbliche quale quella di Fassin, risultato evidente di inchieste e dossiers aperti e compilati, dichiarano d'acchito la posizione del denunciante. Prendendo la parola in questo modo su una rivista come "L'Homme", Fassin ha già preso partito: e, tra le varie bandiere che il fronte dominante esibisce, ha scelto quella della scienza umanitaria, dell'umanitarismo egualitario, della scienza umana "esatta" che osserva, nomina e classifica con cura, per poi passare, magari, il dossier all'ufficio accanto. È un'operazione di denuncia tesa a rafforzare la mainstream culture, indifferentemente se in versione socialisteggiante e umanitaria o liberal-conservatrice.

Da una posizione di minoranza, o di opposizione, su questi temi ci si muoverebbe in tutt'altro modo.

 

Errori e disabilitazioni

Da tempo ho scelto di adottare, di "etnopsichiatria", il significato letterale: ".... la disciplina che pratica (e studia) l'arte del prendersi cura della "psiche" in territori e gruppi umani definiti", accogliendone pienamente la radice ethnòs nel suo significato di razza, tribù, stirpe, famiglia, ma anche provincia, territorio: indica la dimensione locale, particolare, di una parte rispetto al tutto. È quindi la psichiatria dell'"altro" solo in quanto istituisce un "noi" connesso a una storia, un ambiente, una cultura specifica. Da una posizione etnopsichiatrica che mi pare metodologicamente corretta, ho sempre sostenuto la necessità di considerare la Psichiatria come una delle etnopsichiatrie, uno dei sistemi di cura del "soffio vitale" (psuché) esistenti, culturalmente specifico, sia diacronicamente (rispetto alla sua posizione nel tempo, nella storia) che sincronicamente (per la sua posizione nello spazio territoriale, geografico). Considero dunque l'etnopsichiatria una disciplina legittimata a occuparsi della "follia degli altri" solo se costituisce immediatamente un "noi" altro per altri. È questa la condizione minima perché ci sia "etnopsichiatria critica", e cioé etnopsichiatria post-coloniale e post-neo-coloniale, che guadagna progressivamente il necessario sguardo tendenzialmente meta-culturale, in grado di leggere i vari sistemi come specifici, sottoponendo al massimo della tensione possibile le griglie e i modelli interpretativi e operativi provvisoriamente adottati da ciascuno di essi. È proprio in questo movimento che, a mio parere, l'etnopsichiatria produce i suoi frutti migliori, chiamando per necessità al lavoro multidisciplinare e multiculturale. Non mi pare questa una posizione che l'etnopsichiatria possa scegliere, ma mi sembra sia quella obbligata dal processo e dagli avvenimenti in corso. Questa posizione genera ovvie resistenze e reazioni demolitrici dato che intacca la pretesa "naturalità" (per Scienza, per investitura divina che ne autorizza le pretese di egemonia) della mainstream culture.

Nel testo di Fassin alcune pagine sono dedicate alla "doppia aporia dell'etnopsichiatria". Partendo dalla constatazione delle approssimazioni o addirittura degli errori linguistici, etnografici, antropologici di Carothers e Nathan (cui aggiunge gli errori di Octave Mannoni), Fassin sottolinea come questa etnopsichiatria "...pur riferendosi a un pensiero del particolare contro il pensiero dell'universale, mette all'opera tecniche e significati che si accontentano di un disconoscimento dell'Altro e che si mostrano, insomma, indifferenti alla differenza." (p. 243). Per Fassin la ragione di questo non interesse allo studio puntiglioso dell'Altro in quanto altro sta "....in una doppia operazione di culturalizzazione e psicopatologizzazione che si effettua fuori dal mondo sociale in cui gli atti assumono senso per i soggetti e che non ha dunque bisogno di nessuna prova di validazione a posteriori poiché è fondata a priori." (p. 243) La culturalizzazione porterebbe a interpretare i problemi in funzione di una griglia culturale indipendente dalle realtà sociali; la psicopatologizzazione a leggere le sofferenze e i comportamenti sociali in chiave psicologica o psicopatologica. Questo doppio vizio non minerebbe però solo il lavoro degli Autori citati, ma l'intero impianto etnopsichiatrico. Si tratterebbe proprio di un "...metodo consustanziale all'impresa etnopsichiatrica: l'articolazione dello psichico e del culturale passa attraverso una doppia riduazione a una cultura essenzializzata e a un sociale patologizzato." (p. 246)

Per Fassin il culturalismo comporta, occultandolo, il fantasma della razza travestito da Cultura; mentre la psicopatologizzazione (o psicologizzazione) produce l'escamotage del politico nell'elaborazione delle spiegazioni dei fenomeni esistenziali e sociali. Carothers e Nathan quindi parlerebbero entrambe dell'Altro da una posizione minata dall'ideologia (culturalismo) o da un occultamento (della dimensione politica). Di conseguenza non vedrebbero, prima di tutto, la posizione che loro stessi occupano. "Ciechi l'uno e l'altro a ciò che il loro statuto può dire delle loro visioni, muti entrambi sui benefici sociali che possono trarre dall'analisi tanto politicamente conformista che producono, parlano dell'Altro da sapienti al di sopra di qualsiasi soggettività politica." (p. 248)

Pur potendo capire le esigenze di correttezza etnografica e sociologica espresse dal medico socio-antropologo (e la morale politically correct che ne fa da sfondo), e perfino la richiesta di considerazione per il ruolo e la categoria professionale che esse sottendono, mi sembrano davvero argomentazioni e generalizzazioni troppo grossolane per chiedere per questo la disabilitazione dell'intera disciplina. Sembra, quello di Fassin, un affondo corto e inefficace, destinato a colpire l'ombra di una disciplina che è già altrove, continuamente rigenerantesi al suo interno sotto la spinta della domanda con cui è costretta a misurarsi: la conflittualità e l'antagonismo rappresentati dall'emergenza dell'alterità culturale che si dà come soggettività vivente. Anche se spesso è usata e prescritta come disciplina in grado di ridurre l'ansietà che l'incontro con l'altro, e il conflitto che genera, scatenano sempre, l'etnopsichiatria conserva inevitabilmente, se il metodo è corretto, il suo potere provocatorio. Questiona infatti saperi e pratiche "naturalizzati", le relazioni di potere che li sottendono, le ideologie e le visioni del mondo occultate nella presunta neutralità degli apparati tecnici. Disciplina dunque per sua natura critica, destinata a provocare incessanti revisioni epistemologiche, che considera la cultura come l'ambiente indispensabile all'ominazione senza farne il "cuore della teoria" e che è inevitabilmente, e immediatamente, politica. Per questo è oggetto di periodici attacchi e di tentativi di legittimazione e riduzione.

 

Il caso di Tobie Nathan e del Centro Devereux

Anche se qualche volta Nathan tende ad identificarla col suo pensiero e la sua opera, l'etnopsichiatria non è Tobie Nathan e il Centre Devereux. Anzi, essi sono un caso particolare e estremo, per certi versi purtroppo non riproducibile, nel multiforme universo dell'etnopsichiatria. Non ha senso quindi cercare di capire gli impliciti politici dell'etnopsichiatria tout court: dentro il contenitore si trovano le esperienze più disparate, provenienti dai più diversi contesti, con i più diversi obiettivi.

Vediamo dunque alcuni impliciti connessi al pensiero e all'opera nathaniana (il Centre Devereux ne è, in certo modo e non del tutto, la traduzione pratica, modellata anche dagli obblighi istituzionali), che ci aiutino a collocarli in una mappa politica sensata.

Tra individuo e comunità, Nathan sceglie la comunità, nel senso che non considera gli individui come entità isolate e chiuse, ma come rappresentanti di gruppi. Questi gruppi possono essere visibili o invisibili, umani o non umani. Sono cioè la famiglia, la famiglia allargata, gli esistenti posti su quello che I. Sow chiama l'asse trasversale costituente la persona: i viventi depositari di una parte del nostro senso; ma sono anche gli antenati e i discendenti, che, posti sull'asse verticale di I. Sow, sono anch'essi depositari di una parte del nostro senso. Sono infine gli esseri invisibili cui la cultura, fabbricandoci, ci ha legato: anch'essi detengono una parte del nostro senso. Lavorare con una persona, migrante o migrata o indigena, significa sempre, per Nathan, riferirsi alla comunità che sottintende: non per necessità scientifica (o almeno non solo) ma per scelta politica. Lavorare con una persona adottando il modello psicologico (modello etnico occidentale) significa infatti innanzitutto isolarla, chiuderla nell'involucro fittizio della sua propria pelle. Anche questa è una scelta, una scelta politica appunto, mascherata nella maggior parte dei casi da obbedienza alla verità scientifica e al Progresso. Se i progetti delle agenzie internazionali privilegiano le azioni che dissolvono i legami tradizionali delle comunità per istituire gli individui in modo che sia possibile l'impianto del capitalismo competitivo, psicologizzare, e cioé modernizzare la percezione di sé, orientare nella direzione dell'interiorità e dell'individualismo psicologico un modello antropologico altro attivo in un determinato etnòs significa fare azione politica. Ecco perché, per esempio, il setting psicoterapeutico duale è una provocazione, all'interno di comunità vive. Questa opzione Nathan non la assume solo verso gli stranieri, ma anche verso gli indigeni: se deve rafforzare un modello, cerca di scegliere consapevolmente quello che vuole rafforzare. Ciò che vale per i "neri", vale anche per i "bianchi" e per tutte le sfumature intermedie: si tratta di collegare, non di separare.

Nathan rende espliciti i rapporti di forza tra gruppi e culture, nel momento in cui rinforza, dandole dignità, la cultura dello straniero. Prende partito in un conflitto, nel conflitto che traversa il migrante, sostenendone la parte in quel contesto (Parigi, Università, Psicologia ecc.) più debole. È ovvio che non c'è, soprattutto nei migranti (ma in nessuno, a stare ai dati recenti sulle personalità multiple e ai nuovi modelli della mente) una sola identità ma una dialettica tra diversi attrattori. Ponendosi come diplomatico tra gruppi, Nathan si pone come uno specialista in conflitti, aprendo una terza possibilità tra pace (in questo caso mimesi) e guerra (in questo caso opposizione per automatismo riflesso, per chiusura etnica, tradizionalista, che progetta l'annientamento dell'altro). Mi pare fondamentale passare dallo schema duale (pace/guerra) così caro all'integralismo cristiano e ora al totalitarismo spettacolare, a quello che privilegia la capacità negoziale e l'assunzione del conflitto. L'esplicitazione del conflitto culturale non è affatto una copertura della questione sociale, delle ingiustizie economiche, della violazione dei diritti dei migranti. È invece un'amplificazione, un sottolineare un aspetto del conflitto che complessifica lo scenario. La negoziazione necessaria è anche trasmissione di una competenza: quella che vede, assume il conflitto e lo lavora. Competenza valida in ogni, anche diversa, situazione. Nathan, poi, non rinvia gli stranieri ai vuoti, alle debolezze delle loro situazioni di origine; ma li riferisce ai pieni, ai punti forti: ai guaritori e alle pratiche di salute e prevenzione che prende alla lettera e rispetta come macchine logiche efficienti. Il dispositivo messo a punto da Nathan si propone dunque come produttore di uno spazio terapeutico contradditorio, dalle referenze multiple, all'interno del quale il paziente può sviluppare un contropotere che lo porta a interrogare i terapeuti presenti; più vicino in questo a un parlamento, dice Nathan, che a un confessionale cattolico.

Questa mi pare una scelta radicale, forse la più radicale finora agita nell'area etnopsichiatrica, i cui sbocchi coerenti e necessari sono modelli multicentrici e pluralismo terapeutico. Cercherò di chiarire in breve perché questi due impliciti dell'azione nathaniana possano risultare insopportabili per l'ordine esistente.

Se davvero le culture sono dei sistemi prodotti dalle collettività e producenti le persone, sono l'acqua in cui quei determinati pesci possono vivere, devono conservare con molta cura i loro dispositivi di riproduzione. Uno di questi è, ovviamente, l'attività terapeutica. Scuola e Sanità sono momenti essenziali nella fabbricazione delle persone, anche se nelle società a forte impregnazione spettacolare e mercantile questa funzione torna a essere soprattutto delle cose e degli idoli. In particolare i processi psicoterapeutici, installando modelli e riorganizzando desideri e pensieri, hanno un alto effetto di inculturazione. Come mai le società dicentesi multietniche (o, nella versione politically correct, multiculturali o, addirittura, molteplici o multiple) accolgono formalmente ristoranti e negozi etnici, ma non l'installazione ufficiale di sistemi di cura altri? Anche se tra le righe della normativa europea si accetta il principio che le minoranze si diano i loro propri sistemi di cura, ancora non ho visto da nessuna parte non dico sostenere, erogare risorse per, ma neppure tollerare pratiche altre che sarebbero incompatibili con la cultura occidentale. Accettare un modello di coesistenza di diversità rispettose le une delle altre (e cioè il modello che noi stessi suggeriamo nei paesi detti "in via di sviluppo" in cui preconizziamo la penetrazione della Sanità) sembra impossibile per i paesi egemoni che comunque continuano a ritenere di essere depositari di valori (morali, scientifici, umani) universali. Il pluralismo terapeutico istituzionale si è finora realizzato in Italia solo con l'introduzione nei servizi pubblici di pratiche quali l'omeopatia, la fitoterapia e l'agupuntura: tecniche che non portano con sé alcuna visione del mondo conflittiva con quella dominante in Occidente.

Il modello nathaniano, cioé, lascia intravedere una società davvero molteplice, nel senso che la distribuzione delle risorse, del potere e della parola vi sarebbe tale da permettere, anzi, da favorire la coesistenza di sistemi culturali anche molto diversi o addirittura conflittivi. Un simile progetto, quello di una rete agerarchica autogestentesi e autorganizzantesi, che si avvicina alle esperienze e alle elaborazioni più avanzate del libertarismo comunitario (dal comunalismo di Bookchin alle esperienze neo-consigliariste), è oggi pensabile e modellizzabile grazie all'avvento delle reti e allo studio dei sistemi caotici.

Che poi, nella pratica della singola seduta, si realizzi o no, il progetto di Nathan è trasferire la funzione di esperto dal terapeuta al paziente stesso; o almeno è ciò che Nathan sostiene e scrive da sempre, e che in parte mi pare avvenga, nei limiti che le situazioni di cura in particolare comportano. Ciò sottintenderebbe che la guarigione è un processo, innanzitutto, di autoguarigione. Il movimento è dunque verso (per usare una parola così cara oggi agli ingegneri sociali) l'empowerement del singolo e dei gruppi. Ciò avviene almeno per l'effetto disalienizzante legato al prescrivere procedure di guarigione che avvengono nell'area culturale, geografica, di sopravvivenza del paziente e non in altri luoghi; e per un effetto attivante legato al fatto di rendere il paziente responsabile, attore della sua ricerca (spesso proprio attraverso peregrinazioni e successive scelte reali, non mentali).

Il senso profondo del progetto dichiarato da Nathan va dunque, che egli lo sappia o meno e che gli piaccia o no, in senso contrario a quello della cultura dominante. Sostegno a localismi e a comunitarismi, valorizzazione del potere generativo dei conflitti (non delle guerre!) e delle negoziazioni relative, molteplicità reale e reale multiculturalità, empowerement degli individui e dei gruppi, sostegno alle capacità critiche nei confronti degli esperti istituzionali e alle corporazioni, sono solo alcuni dei tratti che caratterizzano il discorso suo e quello dei suoi collaboratori.

 

Un ebreo-ebreo, forse ex-maoista

Questi tratti del lavoro nathaniano si incrociano con alcune affermazioni pubbliche circa la sua propria collocazione e storia. L'ho sentito pubblicamente rivendicare le sue simpatie maoiste nel corso degli anni '70, ma non ne so di più e non ce n'è traccia nei suoi scritti.

Invece molto più forte, ed esplicita, è la sua rivendicazione di essere un ebreo-ebreo. Cosa voglia dire oggi essere ebreo-ebreo non so; non vuol dire certo un'appartenenza religiosa forte, almeno non nel caso di Nathan che mi appare come un individuo sostanzialmente laico, del genere "libero pensatore", non certo vincolato nella sua vita dalle regole dell'osservanza, né propenso, mi pare, ad aderire a una cosmovisione monoteista. Credo piuttosto che il suo reclamarsi alla natura ebrea-ebrea sia, in generale, la rivendicazione di un'appartenenza etnica forte, consapevole, annunciata; premessa indispensabile per il suo lavoro. Ma, in modo più specifico, significa anche dichiarare non di appartenere a un'etnia in generale, ma proprio a quella che ha saputo conservare, attraversando le vicissitudini note, più di ogni altra la consapevolezza della propria appartenenza e la volontà di perpetuarla pur vivendo appieno la modernità. Un popolo, dunque, che ha sviluppato una competenza unica nel mettere assieme appartenenza forte, nomadismo, deterritorializzazione. Per questo, credo, Nathan afferma così fortemente la sua appartenenza; e a partire da questa affermazione costringe gli altri a pensare, e a affermare, la propria. Da un lato, spinge al passato, alle proprie radici; dall'altro, suggerisce che è possibile sopravvivere in quanto esseri etnici nel vortice della modernità sia come persone sia come gruppi e farlo addirittura in posizioni di forza.

È ovvio che si tratta di un tema delicatissimo che riattiva fantasmi e ferite di ogni genere. Tuttavia, riflettendo sugli impliciti politici dell'opera nathaniana, e sul tipo di attacchi che suscita, credo non possa essere taciuto. Nathan può essere sentito pericoloso per il progetto totalizzante perché afferma di essere competente su una via altra, che non è né quella della omogeneizzazione universalista che rompe con le radici etniche, né quella dell'etnicità tenebrosa fondata sul suolo e sul sangue; e di condividere con una collettività questa competenza. Dimostra che è possibile essere etnicamente specifici e avere successo nella modernità, starvi con agio; e lo dimostra a partire da un'appartenenza etnica forte e insieme potente nelle dimensioni economica, finanziaria, culturale e politica di questo mondo. È come se, anche senza volerlo, svelasse l'ipocrisia dell'ideologia dominante e insieme la possibilità concreta della sua propria teoria.

Infine, per chiunque abbia frequentato poco o tanto il Centre Devereux, risulta impossibile pensarlo come una accolita di nazional-fascisti razzisti e xenofobi. Vi si respira al contrario un'aria davvero multi e interculturale, proprio per questo piacevole, ricca e stimolante.

 

Politiche e derive dell'etnopsichiatria

Nel 1982 ho pubblicato un articolo sull'etnopsichiatria in una rivista italiana di psichiatria. Concludevo, sostenendo che nel dibattito in corso tra tendenze biologiche, sociali e psicologiche in psichiatria l'etnopsichiatria poteva utilmente prendere la parola sui rapporti tra psicopatologia e cultura, chiarendo il ruolo di fattori di rischio e protezione, e facendo le parti tra ciò che è universale, proprio della natura umana, e ciò che è determinato da fattori specifici, culturali, ambientali, socioeconomici. Poteva arricchire l'armamentario terapeutico disponibile, inserendosi con intelligenza nel vastissimo movimento di sincretismo terapeutico in corso. Poteva offrire le ragioni per sostenere i sistemi tradizionali di presa in carico là dove sono ancora vivi, e dove costituiscono un presidio di primo ordine nella costruzione della salute e nella cura e prevenzione delle malattie. L'etnopsicologia, a sua volta, avrebbe potuto collaborare a una migliore conoscenza dell'essere umano, della sua natura e delle sue declinazioni locali. Nella bibliografia sono citate opere di Devereux, Parin, Frighi e Banti, Jablensky, Binitié, Yap, Lambo, Murphy, Sow. Nathan non è citato: lo è solo la rivista "Ethnopsychiatrica", che Devereux aveva fondato con lui nel 1978.

Il libro di Nathan Médecins et sorciers. Manifeste pour une psychopathologie scientifique, del 1995, è stato tradotto in italiano nel 1996. A parte alcuni interventi in ambienti specialistici, Nathan è stato conosciuto dal grande pubblico italiano grazie ai suoi interventi pubblici nel corso degli anni 1994-95-96, tra i quali il Congresso "Psicopatologia e culture" a Firenze nel 1995. A partire da queste date si può misurare la velocità e le dimensioni dell'impulso che ha mosso in questi anni l'etnopsichiatria e, in generale, la critica epistemologica alle scienze umane applicate. Tuttavia, deve essere chiaro che, se di etnopsichiatria si parla oggi tanto, non è solo per l'importante lavoro di Nathan e di altri tecnici e intellettuali europei, ma per la crescente provocazione portata in Europa dai migranti, dalle loro culture, visioni del mondo, dai loro saper-fare terapeutici: sono i viaggiatori i veri motori dell'etnopsichiatria.

Anche se presa al laccio, e pungolata, dalla urgenza della inquietudine istituzionale (rispetto alla quale funge da ansiolitico, impegnandosi a gestire il "disordine" "psichico" portato dai migranti), inquietudine da cui trae anche i fondi, le risorse, i luoghi e le occasioni per l'attività clinica e l'elaborazione teorica, l'etnopsichiatria tuttavia non si esaurisce in questa funzione sociale, né nei centri e luoghi della "clinica transculturale". Altri filoni sono attivi e studiosi e ricercatori di varie appartenenze si muovono su terreni altri.

Lo studio comparato dei dati epidemiologici, pur con tutti i limiti e difficoltà metodologiche (a partire dai quali si è messo in moto un profondo lavoro di revisione della nosografia psichiatrica) continua, come lo dimostrano i molti articoli pubblicati sulle riviste del settore (in particolare Transcultural Psychiatry). Esperienze, anche coraggiose, di esplorazione, conoscenza e sperimentazione di altri sistemi di interpretazione e cura del "disagio psichico" in varie culture hanno avuto luogo, e sono tuttora in corso. Tentativi consapevoli, coerenti e tecnicamente raffinati di orientare e sperimentare sincretismi o inediti dispositivi a partire da quelli etnici (occidentali compresi) rendono sempre più complesso il sistema di cure in Occidente e altrove. In Paesi che stanno costruendo e formalizzando il loro sistema di cura, l'etnopsichiatria continua ad avere una funzione di orientamento e sostegno delle pratiche locali.

Le politiche, e i terreni di lavoro, sono dunque molteplici e in divenire, e non possono essere ridotti a questo o quel singolo approccio.

Recentemente ai "datori di lavoro" tradizionali degli etnopsichiatri ed etnopsicologi se ne sono aggiunti di nuovi. A Parigi, il Centre Devereux riceve incarichi di perizie e terapie dal Ministero degli Affari Sociali nei confronti di individui "sfuggiti alle sette"; e si propone, in futuro, come istituzione esperta nel trattare le "vittime delle psicoterapie". Si tratta di un terreno estremamente scivoloso e ambiguo, e basterebbe il titolo del dossier stampato su "Le Journal des psychologues" del Febbraio 2000, Le sette: un pericolo per la professione a segnalare il rischio che, per motivi ideologici o corporativi, si finisca per criminalizzare, insieme ad alcuni malfattori e ai loro seguaci, tutta un'area (dal guru new-age al fondatore di una nuova chiesa) che è ora in piena ebollizione e dove è possibile si generino anche interessanti e feconde opposizioni e alternative al Nuovo Ordine (si veda, in Cina, il caso Falun-dong). D'altro canto, anche una sola occhiata al dossier citato porta direttamente nel mondo paranoico degli X-files: si incoraggiano i famigliari a stare all'erta verso gruppi che spingono alla rottura con la famiglia, a "restare il guardiano fedele della personalità di prima" del congiunto "trasformato" dalla setta, a segnalare il fatto alle associazioni e autorità competenti, a fare attenzione se una scuola di musica, o di disegno, un'associazione sportiva o una "terapia" sembrano strane, o sempre più coinvolgenti....

Un altro terreno altrettanto infido sembra il reclutamento di etnopsichiatri e etnopsicologi nei programmi di riabilitazione delle vittime delle guerre, in particolare quando tali programmi siano finanziati dagli stessi che hanno compiuto l'intervento armato. Pur tenendo conto delle necessità di trovare spazi di lavoro individuali e istituzionali, simili iniziative incollano l'etnopsichiatria a dinamiche politiche che contraddicono le intenzioni di cui prima si è parlato: non più pluralismo, ma una ratio centrale normativa, unica legittimata a produrre "trasformazioni"; non più etnopsichiatria critica, ma braccio riparativo e terapeutico di dinamiche distruttive.

Queste mi paiono, a partire dalla mia posizione politica, liaisons dangéreuses tra una disciplina (che si è affermata per il suo lavoro critico, per il suo potenziale euristico e innovativo rispetto all'impianto antropologico e scientista occidentale) e interessi normativi, corporativi, di egemonia che la reclutano per controllo sociale o nei piani Marshall socio-psico-antropologici presenti e, temo, futuri.

Tornando alle critiche e ai sospetti di Fassin, credo che la lezione che se ne può trarre è che coloro che lavorano nel terreno minato ai confini tra culture, come diplomatici e esperti nella negoziazione tra parti in conflitto, hanno tutto l'interesse a essere il più espliciti possibile circa il progetto politico che non possono non avere: si sarà attaccati comunque, ma almeno dalla parte che si sente come avversa. Nessun bisogno allora di polemiche, rettifiche, giustificazioni. Da questo punto di vista, se una critica si può muovere a Nathan, non è di aver detto troppo (le sue intelligenti provocazioni, che hanno contribuito al suo successo pubblico, gli sono anche valse inutili inimicizie) ma di aver detto troppo poco.

Oggi Tobie Nathan ha 52 anni. Non è affatto tardi per scoprire gli impliciti politici del suo discorso, per lavorarli con i suoi amici e collaboratori a voce chiara e forte, qualunque essi siano. Siamo in un'epoca che ha definitivamente superato i confini tra tecnica, politica e cultura. Ogni operazione tecnica è immediatamente operazione sulla cultura e nella polis. L'esplicitazione delle intenzioni, dei progetti per cui si lavora, produce agglomerazioni in gruppi di intenzione: per affinità elettive, per esempio. Che sono nodi di appartenenza ulteriori, oltre a quelli etnici, di corporazione, di affiliazione; e certo non meno attivi e importanti.

In questo, Fassin si sbaglia: almeno in Italia, è su simili affinità, che coinvolgono soprattutto giovani aperti e curiosi, impegnati con gli "stranieri" alla costruzione di una società davvero molteplice, amanti delle differenze, desiderosi di innovare discipline ammuffite nel chiuso dei gelosi recinti accademici, che si fonda il successo di Nathan e di chi ha lavorato con lui (a volte anche da posizioni molto diverse o addirittura conflittuali) in questi anni nell'area dell'etnopsichiatria.

Non so quanto Tobie Nathan si riconosca nella prospettiva che ho qui indicato e che è quella, ovviamente, che mi sta a cuore: la parte che ho preso. Qualunque sia la sua posizione, gli auguro comunque una lunga vita, con ancora molta forza, entusiasmo e coraggio, e lo ringrazio davvero per ciò che fino ad oggi ci ha dato e ci ha aiutato a fare.

 

 

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Piero Coppo